Le nostre anime di giorno (IlFoglio 21/3/25)
Bástya utca è una stradina di Budapest. Una vera piccola strada della città in cui un giorno una bambina di cinque o sei anni giocava alla campana, quel gioco che piace particolarmente alle bambine e che consiste nel saltellare fra i riquadri di un disegno a forma di campana fatto sull’asfalto con un gessetto bianco. A volte i romanzi nascono da un incontro di cui resta un’immagine così potente da dare corso a una storia. Giuseppe Lupo era a Budapest e stava passando in quella strada dove ha visto la bambina, che ora si chiama Margit e vestita d’organza con “i capelli raccolti da nastrini” ripete il suo gioco nelle pagine del romanzo, Storia d’amore e macchine da scrivere (Marsilio, 215 pagine, 17 euro). È la sorella più piccola di Sandór Molnár, quando ancora giovane, ma già una promessa della scienza mondiale, viene caricato da quattro sconosciuti su una macchina e portato in modo rocambolesco fuori dall’Ungheria. Sarà la libertà, sarà per lui la fine dello stalinismo e il non esserci quando la rivolta del ‘56 finirà nel sangue per l’arrivo dell’Armata Rossa. Sarà la fama fino al Premio Nobel, ma pagata con un’irredimibile nostalgia, con il buio totale sulle sorti di quella bambina e della sua famiglia.
A novantacinque anni, chiamato da tutti il Vecchio Cibernetico, che sa giocare con i vuoti di memoria dovuti all’età, uomo dal carattere sfuggente e dagli imprevedibili scatti d’ira, ma di una “morbida indolenza”, deve essere intervistato dall’importante giornalista Salante Fossi su una sua misteriosa scoperta, chiamata Qwerty secondo l’ordine che ha la prima fila in alto delle macchine da scrivere e delle tastiere di computer, ma che nulla ha a che vedere – sembra – né con le prime né con i secondi, anche se di entrambi Molnár è stato maestro lavorando all’Olivetti accanto al grande Adriano.
Dallo Jutland al Portogallo, seguendo gli spostamenti del suo impossibile quanto affascinante intervistato, il povero giornalista sembra non arrivare a capo di niente. E proprio come il lettore di questo romanzo stravagante – costruito secondo le regole di un thriller le cui sorprese stanno tutte nelle parole di precisissima quanto poetica ispirazione – si ritrova sempre più coinvolto nei particolari di una vita vagabonda e straordinaria. Ma quel che conta per sciogliere i numerosi enigmi, si direbbe, non è la bizzarria di una custodia della celebre Lettera 22, indimenticabile macchina da scrivere e ormai venerato pezzo da museo, che il Vecchio Cibernetico si trascina dietro ovunque. E nemmeno che da quella custodia lui continui a tirar fuori documenti e lettere che non servono a chiarire nulla. Né tantomeno l’attesa ossessiva di una donna, Ann Lee, suo grande amore, spia e guida nella fuga, poi moglie indispensabile sempre al suo fianco. Ma dov’è finita? Dal parrucchiere, a cambiarsi d’abito, a comprarsi le scarpe… che sia morta e lui non lo sa o non vuole saperlo?
E, a dir la verità, non ha importanza, perché nulla ha importanza se non la vita stessa e la nostra illusione di viverla. Sia come sia: nell’attesa di figli che non vengono, perché l’utero malato di Ann Lee continuava a perderli, nel ricordo di Margit che resterà bambina in eterno, nel suono lontano di musiche klezmer dai violini pieni di malinconia, nelle apparizioni fantasmatiche di Adriano Olivetti e quell’altro genio informatico di Mario Tchou, scomparsi troppo presto, a vincere è la luce che questi pezzi di esistenza sprigionano nella narrazione di chi ha saputo raccontarli. Malgrado ciò la “nostra mente assetata di completezza, la nostra impaurita coscienza, il nostro fragile presente” sono capaci di grandi scoperte in grado di cambiare il mondo. Scoperte come Qwerty con cui alla fine Salante Fossi si troverà faccia a faccia. Ma non è detto sia un bene.